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Un articolo di Muzak su Francesco de Gregori, quando la stampa musicale non aveva peli sulla lingua



Negli anni '70 italiani si era formata una critica musicale, politicizzata e ma molto preparata, che raccontava i fenomeni della musica popolare senza i condizionamenti dovuti ai rapporti economici che esistono ormai fra industria e stampa. Talvolta i giudizi erano forse troppo tassativi ma nascevano dal confronto fra opere musicali di livello altissimo che uscivano in quegli anni e che imponevano un certo rigore metodologico.
Oggi, invece, siamo innanzi, da un lato a un'impreparazione culturale diffusa dall'altro a una complementarità al mondo dei promoter e delle agenzie di stampa sommata a una serie di modelli dominanti nella società italiana che rendono "intoccabili" tutta una serie di personaggi.
Uno di questi è senz'altro Francesco de Gregori, eletto a sommo poeta e a icona culturale "nobile" di un parte del paese ma che negli anni '70 veniva esaminato con grande rigore critico.
Pertanto riporto alla luce un articolo della mitica rivista "Muzak", grande testata controculturale degli anni '70, su questo cantautore oggi così celebrato ristampato anche nell'introvabile volume "Muzak" della Savelli.




De Gregori non è Nobel, è Rimmel

S'impone un autocritica e delle sue terminando il mio articolo sullo scorso numero ho paragonato De Gregori, cantautore romano. con Eugenio Montale. poeta senatore. Ora è vero che Montale ha vinto il Nobel e che tale premio è paragonabile, per le soddisfazioni morali e materiali, alla vendita di mezzo milione di copie di un disco, ma questo non basta un paragone che regga. Autocritica dunque per la facile battuta. E scuse al poeta-senatore-nobel e non a cantante-romano 

Rimmel è l'ultimo disco di De Gregori. e certamente di più venduto e più apprezzato dal pubblico. Di questo disco mi occuperò. disco che mi sembra può essere considerato il manifesto della poetica degregoriana: banalità musicale da canzonetta anni '60 impreziosita da alcuni arrangiamenti barocchi e barocchetti con un occhio al rock morbido della quarta generazione inglese (Elton John c fratelli è qualcosa d'altro (folklorismo da banane in testa, Dylan e Cohen guardati con occhio miope quasi cieco De Andrè incoerente, Gian Pieretti, Gianni Meccia e persino Nico Fidenco...) e su questo tessuto povero-povero egli appoggia pesantemente testi in cui la metafora ermetica campeggia vittoriosa nei suoi vestiti più kitsch.

Non dirò altro sulla musica, anche perché sono snob e le canzonette non mi sono mai piaciute. Più interessante è invece un'analisi un po' attenta dei testi e dell'orizzonte culturale» nel quale il canto degregoriano si muove. In Rimmel la metafora e presa a sé, non collocata all'interno di un discorso "logico", cosi come teorizza l'ermetismo pre-bellico, da Ungaretti a Quasimodo: vorrei dire, anzi, che i nessi logici sono evitati in toto, fino ad arrivare alla contraddizione fra alcune metafore più leggibili di altre.
Così in Rimmel, la prima canzone del disco, sembra di leggere la storia tipica delle canzonette di un amore finito. E mentre lui cancella «il tuo nome dalla mia facciata», lei è espressamente autorizzata a «spedire le sue labbra a un nuovo indirizzo» (cioè, si evince, ad andare con un altro uomo, ad offrire i suoi baci. «le labbra», ad altri) e, subito dopo, a «sovrapporre la mia faccia a quella di qualcun altro» (cioè a baciare quell'altro continuando a pensare a «lui»). 

Se il nesso logico, fra la spedizione delle labbra» e la «sovrapposizione della faccia» è questo che abbiamo interpretato allora salta tutta la interpretazione della canzonetta come «amore finito». E invece no, perché fra metafore incomprensibili, c'è tutta una storia di una fotografia zeppa di particolari (sorridevi e non guardavi, il vento che ti passava nel collo di volpe ecc.) che lei dice essere l'unica cosa che lui possiede di lei stessa, dunque è amore finito, almeno sembra.

La metafora dunque è puro gioco delle parole, dunque non più metafora né, tantomeno, allegoria, ma in qualche modo evocazione, intuizione lirica, suono che in qualche modo rimanda: e quasi sempre rimanda ad amori sofferti, ma non sempre. E' indubbio infatti che c'è un tentativo di introdurre concetti politici o comunque spaccati di vita non esaurita nelle stanche storie d'amore. E qui (in questo senso fa testo la canzone Pablo) c'è un'evidente contraddizione (doppia, fra l'altro) fra ermetismo e pratica, fra teoria dell'evocazione senza storia (propria della corrente ermetica) e riferimenti storico-concreti. 

Noi non siamo per il realismo, ma non è un caso da sottovalutare (senza cadere nel peggior crocianesimo) che la fortuna dell'ermetismo dati anni '30-40, e cioè si collochi programmaticamente come isolamento dal fascismo, isolamento nell'inattività pubblica e nella poesia come risposta «privatistica» alla retorica mussoliniana. Ma doppia contraddizione perché una poetica ermetica, dell'intuizione lirica, è una poetica tendenzialmente idealista, dunque di destra, arretrata negli anni '70, dunque incapace di rispecchiare tensioni, di farsi portatrice di valori positivi e rivoluzionari. 

E, infatti, nonostante le intenzioni dette, questi valori positivi e innovativi non ci sono di fatto se non temperati in un'evocazione ambigua, "privatistica" appunto, individualista, senza capacità di generalizzazione, cioè di trasformarsi in proposta poetica o artistica di sinistra e di lotta. 


Pablo, abbiamo detto: è una canzone che narra la storia di un emigrante spagnolo in Svizzera, che muore sul lavoro (sembra di capire) "caduto per caso" (ma dovrebbe esserci un'ironia, spero) con il ritornello finale "hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo". Un elemento è soprattutto irritante in questa che dovrebbe essere la canzone più lontana dall'intimismo decadentista del resto del disco: ed è l'esotismo e il tono pastorellesco e laudatore del buon tempo andato del testo. Infatti questo Pablo vive in una Spagna tutta sua, in cui ha una moglie ingrassata che lui tradisce in Svizzera (e vorrei anche vedere che si mantenesse casto) e un gallo da combattimento in latteria. 

Una Spagna tutta inventata o quasi, di maniera: da chi ha nei suoi indubbi riferimenti e orecchiamenti culturali Garcia Lorca, ci si potrebbe aspettare di meglio. E questa pastorelleria esce fuori in una frase la cui ambiguità ho invano tentato di squarciare: «hanno pagato Pablo, Pablo è vivo». Ora di due una: o intende con questo che finalmente Pablo non muore più di fame, oppure si evoca un atteggiamento di rifiuto del lavoro e dunque dell'alienazione del lavoro, respinta da un vitalismo di tipo mediterraneo. 

Forse ci sono altre chiavi di lettura ma non sono riuscito a trovarle. E comunque ci troviamo di fronte con Pablo alla canzone più lineare; e pour cause, poiché il contenuto non permette eccessive librazioni nel cielo dell'astrattezza evocativa. Non c'è nulla da evocare nell'omicidio bianco e nell'emigrazione: essi sono corporei e drammatici, senza bisogno di metafora, anzi respingono la metafora così come la retorica.

E' evidente, peraltro, che l'evocazione (e la presunzione di far poesia) faccia scivolare il canto degregoriano nel kitsch in cui non tanto Gozzano è presente, quanto i Baci Perugina.
Chi osasse citare il decadentismo italiano, peggio quello francese l'ermetismo o Lorca e persino Dylan nel caso di Buonanotte Fiorellino o di Piccola mela, commetterebbe un flagrante reato di lesa cultura.
E nemmeno Prévert, sebbene sia il più vicino a queste melensaggini, può essere un riferimento citato senza ridere. 

Né, per altro, frasi del tipo "buonanotte fra il telefono e il cielo" possono indurre a pensare di essere al di là della peggiore canzonetta all'italiana. Per di più in questa canzone il modo stesso di cantare si trasforma in uno zuccheroso bisbiglio da cantante confidenzial-lezioso francamente insopportabile che sbanca chiunque parli di sottile ironia. 

Anche qui, a parte il senso totale che è quello di una canzonetta d'amore, non mancano le metafore evocative senza nessi logici, e così c'è pure un raggio di sole, che stride e con la notte di cui alla buonanotte, sia con il tono tutto sommato dimesso di tutta la canzone: una metafora volontariamente priva di contestualizzazione e per di più messa tanto per fare, quasi per calcolo statistico. Così come non è tollerabile una frase come «i tuoi fianchi di neve» di pavesiana memoria (le colline come i seni delle donne) ma di più stretta matrice Liala. 

Il disprezzo per la cultura è un'altra costante, ma solo raramente palese, è invece a sottendere tutte le canzoni sotto la specie di iterazione (vocabolario povero), tautologia (odio per la logica formale), rima baciata banale, contraddizione in termini (odio per la consequenzialità). Si potrebbe allargare l'analisi, per esempio capendo perché alcune parole ricorrono con una frequenza enorme: «carte», ad esempio, o «stelle» e «luna>(sempre con raggi), «muro». Se per «stelle» e «luna si può interpretare questa scelta di frequenza con il carattere intimo e dunque evocativo della notte, «carte» (ben 5 volte per una parola poi non così comune) è di interpretazione non facile: in genere la metafora è sul luogo comune infantile delle carte come «imbroglio», ingarbuglio, trucco, baro, ma anche fatalità, caso, fortuna, gioco-vizio.

Se tanto spazio ho dedicato a De Gregori (e ancora un po' me ne prendo) non è solo per essere lui il caposcuola indiscusso di tutta una corrente di cantautori ermetici (e il migliore, fra l'altro, se escludiamo Guccini che fa scuola a sé), ma perché il suo successo di pubblico impone qualche riflessione importante. E' indubbio, prima di tutto, che la canzonetta, proprio per il suo carattere melodico-fischiettabile, abbia un valore grosso nella cultura di massa: e per la sua riconoscibilità (da non sottovalutare in periodi di crisi di identità culturale) e per il suo valore di socializzazione (e risposta, nei modelli culturali di facile acquisizione, alla disgregazione). 

Ma questo ancora non spiega il successo che De Gregori ha presso un pubblico tutto sommato intelligente, giovane e di sinistra. Non lo spiega se non con un riferimento doppio: il liceo e Dylan. La pseudo-cultura liceale ha un peso specifico e assoluto enorme nelle canzoni di De Gregori, vorrei dire che egli la riassume sfrondandola dei suoi contenuti per offrirla come pura metodologia dell'approssimazione. Anzi: ideologia dell'approssimazione e della cialtronaggine. Il professore di italiano che fa scrivere agli alunni su un quaderno le «frasi più belle di Dante» (esiste, esiste anche questo), la professoressa di filosofia che fa imparare a memoria la definizione di sostanza in Spinoza («per substantia intellego id quod est ecc.) sono i sacerdoti di una cultura inesistente che vive solo grazie a un'erudizione appiccicaticcia e all'ideologia della cialtronaggine: come imparare (dalla filosofia, per esempio) a non dir nulla chiacchierando, non capire e fregarsene, non allargare al di là e al di fuori di libri e bignamini l'orizzonte della propria cultura. 

Questo è nelle canzoni di De Gregori (che poi potrebbe essere la persona più colta del mondo, ma questa è l'operazione delle sue canzoni), questo egli trasmette, questo sono abituati da anni a considerare poesia gli studenti: poche evocazioni senza né capo né coda, qualche ammiccamento qua e là a un riferimento universale. (Uno dei più squallidi epigoni di De Gregori, tal Venditti, arriva persino a questo osceno concetto in una sua canzone «la Divina commedia che diventa sempre più commedia»!).

Su questo orizzonte di sottocultura spicciola e programmatica, si inserisce Dylan e la poesia psichedelica. Il primo, con le sue ben più robuste volgarizzazioni di Eliot e Dylan Thomas, la seconda con la teoria mai troppo esecrata delle libere associazioni» versione ammodernata, di massa, impoetica e incolta dei «maudits» francesi (ogni paragone continua a essere lesa cultura). In questo calderone ha buon gioco, se ben spinto dalla sua casa discografica, Francesco De Gregori a diventare un idolo di massa, nonostante qualcuno abbia già cominciato a maltrattarlo creando per lui lo slogan, non metaforico, ma indubbiamente evocativo, «Francesco De Gregori, mo' te tirano li pomodori!».

(Giaime Pintor)



post scriptum: questo e altri articoli sono spesso ricollegati, senza alcuna ragione, al "processo" che il movimento fece a questo e ad altri cantautori durante alcuni concerti nel '76.
Questi episodi andrebbero calati nel clima del periodo anzichè riproposti come "assurdità" o "terribili ingiustizie". L'Italia di quegli anni era nel pieno di una guerra civile strisciante e di uno scontro sociale senza precedenti.
Questi "songwriter" all'italiana sfruttavano il ruolo di "coscienza politico-culturale" dei movimenti giovanili assunto all'estero da personaggi come Dylan o da Cohen e quando, invece, risultarono palesi i loro tornaconti economici si sfaldò questa immagine artefatta di "profeti impegnati".
Nella gravità del momento storico questa mistificazione del "cantautore impegnato politicamente" andò a cozzare con le dinamiche dello scontro politico reale in atto negli anni '70.




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