Prologo.
A partire dalla fine degli anni 60 il jazz ha rivitalizzato
se stesso immettendo all’interno delle sue strutture formali elementi
provenienti da altri stili musicali che man mano si diffondevano nel mercato.
Sicuramente il jazz elettrico e poi la sua contaminazione con il rock
inaugurata da Miles Davis rappresentano un momento epocale di questo processo
che durante gli anni 70 determinerà la
sperimentazione con la convergenza fra il jazz e moltissime altre
tradizioni musicali, dalla musica indiana al funk, dal flamenco alla musica
brasiliana.
Gli anni 80 purtroppo trasporteranno molte di queste
esperienze nella deriva commerciale della fusion che si disintegrerà a fine
decennio trascinando nell’oblio decine di nomi che scintillavano in quel
firmamento (vedasi il pregiato catalogo GRP). Il jazz reagisce tornando all’ortodossia
della tradizione hard bop mentre il mondo sonoro circostante si trasforma, tra
lo sferragliare delle chitarre del metal e del grunge e le incomprensibili
monotonie ritmico tonali della nascente elettronica degli anni 90.
Nel corso degli ultimi vent’anni di segnali ce ne sono
stati, dalle contaminazioni tentate da Tom Harrell o da Medeski Martin and Wood,
da un lato, a quelle messe in piedi da Squarepusher o Speedy J dall’altro.
In realtà si sono costituiti due mondi impenetrabili ognuno
distinto e autonomo, ma l’elettronica ha proseguito nella sua sete di
campionamento e ricontestualizzazione di qualsiasi spunto sonoro, con tentativi
anche pregevoli di integrazione, di vero e proprio incontro fr ai due mondi come
quelli di Carl Craig con la sua Innerzone Orchestra o quelli degli ottimi
Spring Heel Jack con John Surman, Tim Berne e Evan Parker.
I due dell'operazione Drago
Mark Guiliana e Brad Mehldau sono due jazzisti molto
talentuosi.
Mark Guiliana è un batterista che ha rielaborato le
divisioni ritmiche e le modalità di programmazione delle batterie elettroniche
sulla batteria acustica. Un processo avvenuto un po’ troppo a scoppio
ritardato, in particolare perché utilizzando molte soluzioni tipiche del drum’n
bass arriva quando questo genere è ormai morto e sepolto.
L’elettronica è un genere in continua trasformazione, ha
anche i suoi revival, ma essendo legato alle evoluzioni del rapporto uomo
macchina risente in modo rilevante degli sviluppi tecnologici, sia software che
hardware. La storia ha dimostrato già in precedenza, che gli sviluppi del
lessico musicale derivanti dall’introduzione di nuovi strumenti hanno impatti
retroattivi anche su strumenti che esistevano precedentemente.
E questo sta succedendo sulla tecnica di molti batteristi, le innovazioni introdotte
dall’uso dei sequencer per la costruzione di linee ritmiche stanno influenzando
l’uso degli strumenti ritmici manuali.
Brad Mehldau è invece un talento straordinario del pianismo
jazz contemporaneo, un astro splendente nell’ormai limitato firmamento del jazz
contemporaneo.
Ma come si lega il lavoro di questi due jazzisti a un
discorso cosi articolato sull’elettronica?
Siamo ormai in un modo elettronico , immersi in una rete
digitale e c’è, chi occasionalmente, e chi invece, come in questo caso,
massicciamente, riformula la propria musica attraverso l’uso di macchine
sonore. Questo progetto collega la batteria acustica, rivista in una visione
post-elettronica, a un massiccio impiego di sintetizzatori analogici, molti
apprezzati nella musica elettronica contemporanea, e di piano fender.
Ma questo atteso Mehliana è un progetto che, ahimè, non sorprende
particolarmente.
Le ritmiche di Mark Guiliana offrono al massimo un drum‘n
bass stra-sentito alternato a tipici elementi jazz funk, mentre Mehldau produce suoni
ronzanti di minimoog stile Keith Emerson 1971 e si impelaga in pregevoli assoli
di piano elettrico e qualche volta di synth.
Il disco è, dopo i primi due brani assolutamente prevedibile
e monocorde, senza sorprese, l’uso dei synth è scontato, un ragazzino fan di
Skrillex avrebbe fatto tremare le pareti, qui invece tutto sembra essere un
elenco dei preset meno interessanti della moog.
Non basta mettere un delay al piano fender per creare un suono ricercato o un tappeto con un lfo che modula il filtro che
sta fra i preset della micro korg.
Ma quello che risulta evidente in questo Mehliana è che
manca il progetto, manca una direzione, un’idea musicale verso la quale il
disco sta andando. Non bastano due solisti bravi con un sacco di strumenti, che
non si sanno nemmeno controllare del tutto, senza un progetto musicale preciso.
Ne esce un jazz rock fatto con synth analogici, molto più
scarno e inconcludente degli ottimi dischi di jazz-rock degli anni 70 dei RTF o
di Miles.
Un occasione mancata, dai video e dagli stralci dei live che
il duo sta effettuando in giro si coglie almeno un po’ della freschezza che l’improvvisazione
dal vivo riesce a creare, e che nel disco è sbiadita dall’assoluta
prevedibilità.
C’è da rimpiangere i tappeti suggestivi di Prophet V, i
bassi elettronici solenni, i brass
pregnanti di Mr.Gone dei Weather Report, in cui l’uso dei synth di Joe Zawinul ,
all’interno di un progetto di contaminazione fra jazz-rock, funk, musica etnica,
assumeva un’importanza che ancora oggi ci lascia estasiati.
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