Diffido sempre dei dischi troppo osannati dalla critica,
specie quella meno affine all’underground e all’universo della sperimentazione
musicale.
Certo vedere James Blake acclamato da “The Guardian” o “The Indipendent” fa riflettere su quanto sia più utile avere un buon ufficio stampa piuttosto che delle idee musicali innovative.
Ma è necessario individuare quali possano essere i punti oggettivi di valore o di caduta presenti nel lavoro di questo cantautore britannico per effettuare una recensione corretta.
Emerge quindi una prima definizione oggettiva: si tratta di un cantautore, sgombrando quindi il campo dagli equivoci in questo senso.
Lo scenario è quello che vede la contaminazione fra indi-pop e una certa elettronica inglese ormai divenuta dilagante, grazie anche alle politiche della Warp e di altre label sempre protese ad inseguire prodotti, che anche se con qualche riverberazione elettronica, siano spendibili nell’universo, più redditizio, del pop.
Certo vedere James Blake acclamato da “The Guardian” o “The Indipendent” fa riflettere su quanto sia più utile avere un buon ufficio stampa piuttosto che delle idee musicali innovative.
Ma è necessario individuare quali possano essere i punti oggettivi di valore o di caduta presenti nel lavoro di questo cantautore britannico per effettuare una recensione corretta.
Emerge quindi una prima definizione oggettiva: si tratta di un cantautore, sgombrando quindi il campo dagli equivoci in questo senso.
Lo scenario è quello che vede la contaminazione fra indi-pop e una certa elettronica inglese ormai divenuta dilagante, grazie anche alle politiche della Warp e di altre label sempre protese ad inseguire prodotti, che anche se con qualche riverberazione elettronica, siano spendibili nell’universo, più redditizio, del pop.
E in questo contesto che va collocato “Overgrown” ultima
fatica di James Blake, evitando tentativi di forzato inserimento dei suoi
lavori nel contesto ormai indefinibile della “musica elettronica”, questo
calderone in cui tutto esiste, quindi in cui non esiste ormai più nulla.
James Blake è un cantautore che impiega degli scarni
arrangiamenti elettronici, forse perché oggi il laptop è la chitarra acustica
del XXI secolo o magari per aderire meglio ai suoni dominanti e di tendenza, ma
nulla ha a che vedere con la ricerca sulle forme, sui suoni, sui ritmi, sui
timbri specifica della “musica elettronica”.
Nulla ha a che vedere con le esplorazioni espressive di Alva
Noto e della Raster-Noton, con le contorsioni ritmiche degli Autechre, con le
dilatazioni infinite di Aidan Baker, con l’esplorazione del glitch e delle
possibilità del rumore della Mego o della Sakho, con i
nervosismi del ritmo della Kompakt, con le possibilità del suono e del
silenzio di Robert Henke, con le destrutturazioni stilistiche di Kid Koala, con le ricerche sull'espressività del rumore di Ben Frost, si tratta invece
di pop-music molto raffinata.
James Blake fa un uso originale dell’accompagnamento
strumentale ridotto al minimo, i suoni
sono curati, ma non sono certo frutto di geniali ricerche sulle strutture formali della musica, lo stile è una
sorta di soul, cantata in un falsetto nel quale riecheggiano i Neville Brothers
di “Ghosts”, che si inserisce nel tentativo aperto da decenni di contaminare la
“musica elettronica” di matrice dance alla black music.
Tentativo già operato da ottimi vocalist e autori quali
Jamie Lidell, che si diletta con un’ispirazione più legata all’emisfero dei
Funkadelic e di Prince, ma che è già insita in questa musica per diritto di nascita.
In questa epoca in cui causa ed effetto, passato e presente sono ormai sovrapposti, in cui, per citare Jean Baudrillard, “la storia cessa di esistere”, si è forse dimenticato che l’origine della musica elettronica di oggi è proprio afroamericana. Quando i ritmi dimenticati dei Kraftwerk riecheggiarono negli scantinati dei sobborghi industriali di Detroit e di Chicago, dietro alle 909 e alle 303, ebbene si, c’erano degli afroamericani.
In questa epoca in cui causa ed effetto, passato e presente sono ormai sovrapposti, in cui, per citare Jean Baudrillard, “la storia cessa di esistere”, si è forse dimenticato che l’origine della musica elettronica di oggi è proprio afroamericana. Quando i ritmi dimenticati dei Kraftwerk riecheggiarono negli scantinati dei sobborghi industriali di Detroit e di Chicago, dietro alle 909 e alle 303, ebbene si, c’erano degli afroamericani.
Forse non tutti lo sanno ma la techno, l’electro, l’house, il
dub, il dubstep, la jungle etc sono musiche afroamericane esattamente con il
jazz o il blues, non è particolarmente innovativo mischiare quindi il jazz alla
black music.
Ma tornando al nostro James Blake questi ha indubbiamente
creato il proprio miscuglio personale, ha individuato il suo stile
riconoscibile fondendo Aron Neville all’ estetica dell’Ipad, ma siamo ben
lungi dall’aver individuato un grande innovatore, casomai un buon cantautore.
Nel disco primeggiano alcune composizioni come “Retrograde” o il brano d’apertura “Overgrown “, ma si tratta di un disco molto statico, in cui nulla decolla da un certo stereotipo e quando lo fa si appoggia alle solide gambe di un RZA.
Nel disco primeggiano alcune composizioni come “Retrograde” o il brano d’apertura “Overgrown “, ma si tratta di un disco molto statico, in cui nulla decolla da un certo stereotipo e quando lo fa si appoggia alle solide gambe di un RZA.
La struttura canzone è sempre li, come tradizione richiede,
resa meno evidente dalle atmosfere sospese dei pochi suoni elettronici presenti
o dai pianoforti elettrici che sorreggono le armonie, ma anche questo lavoro,
come il precedente non è che una buona raccolta di canzoni , che soddisferà
sicuramente molto chi incentra il proprio universo estetico attorno alla
forma-canzone ma entusiasmerà poco chi dall’impiego di suoni elettronici si
attende la ricerca. Nemmeno la comparsata di un ormai statico Brian Eno sposta
l’assieme su momenti di esplorazione sonora, il tutto resta incentrato sull’estetica
pop della song.
voto: 3/5
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