Le grandi contraddizioni di questo paese riescono ad
affiorare anche nella realizzazione di una rassegna musicale.
Laddove sembra
che generi come la musica elettronica suscitino l’interesse solo di piccole nicchie
di pubblico, restando emarginati dai media (anche quelli pseudo-alternativi
come Cool Tour), per poi ritrovarci a Roma con due festival di grande portata simultanei : Electrode (al Forte Prenestino) e il MIT (all'Auditorium Parco della Musica) pieni di gente straripante, a dimostrazione quanto l’establishment
mediatico-culturale sia alieno dalla realtà.
Ma del resto questi opinion leader de “noantri”, ormai pluri-cinquantenni,
sono arpionati agli stereotipi del rocckketto e non vanno oltre le schitarrate
e le rock band indi coi capelli cotonati sui quali hanno costruito la loro
carriera di pontificatori. Ma per fortuna il mondo va avanti, malgrado loro e
malgrado le organizzazioni.
Il Meet in Town, al quale abbiamo assistito nella
giornata di sabato 9 giugno, si è manifestato come incarnazione schizofrenica
di un ennesimo sistema che di musicale ha solo il portafoglio artisti. Spettacoli
surreali, nella loro inconsistenza e nel loto kitsch imbarazzante, come quello dato
da Sebastien Tellier nella sala Petrassi si annoverano fra i momenti da
dimenticare. Come l’inutile dj set del sopravvalutato James Blake, che si è
voluto inserire evidentemente per il peso modaiolo del successo commerciale del
suo ultimo lavoro.
Ma su alcuni nomi è
decisamente impossibile sbagliare, salvo che non siano gli artisti stessi in
qualche fase sfortunata. Quando si chiamano Squarepusher o Afrika Bambaataa, se
non altro per un passato ricoperto di glorie indiscutibili. Afrika Bambaataa ha
regalato a un pubblico in delirio grandi momenti di electro, di funk, di soul,
di hip-hop carico di una grande carriera trentennale, spaziando all’interno
degli emisferi più esaltanti della dance afromericana. Ma, sfidando un impianto
incapace di riprodurre efficacemente, i potenti bassi roteanti della sua musica
lo spettacolo centrale del MIT 2012 è stato senza se e senza ma quello di Tom
Jenkinson. Reduce dall’uscita di un “Ufabulum” che nulla aggiunge e nulla
toglie a ciò che questo artista ha musicalmente ideato in questi ultimi anni, Squarepusher ha riconfermato a Roma che siamo
nel 2012, non nel 1983, come molti vetero-zombie del rock ancora non
comprendono, aspettandosi ancora chitarristi sudati intenti a smanicare scale
pentatoniche. Laddove “Ufabulum” ripercorre idee, suoni, ritmi che già abbiamo
ascoltato nella sua ormai consistente discografia, lo spettacolo di Tom Jenkinson
si incentra su un visual senza precedenti da lui stesso ideato. La musica è
ormai saldata a una concezione di forme e di luci sincronizzate che
rappresentano l’essenza stessa dello show che ormai diviene una vera e propria
performance di arte digitale contemporanea.
Siamo innanzi quindi ad un qualcosa di non più misurabile
con il semplice ascolto di un disco rapportato ad altri dischi , ma difronte ad
un concept in cui il prodotto d’ingegno è la sommatoria di più elementi. L’artista
diviene anch’esso schermo e proiettore, è un tassello di una proiezione, è un
alieno virtuale che dirige un complesso spettacolo di luci e di suoni. La
musica e la luce, che percorre geometricamente i grandi pannelli di led, è l’epicentro
dell’esibizione, indicando la direzione in cui l’ augmented-onemanshow del XXI
secolo può andare in cerca di nuovi sentieri dell’espressione. L’apoteosi dello
show è il momento in cui l’astronauta mascherato di luce impugna il basso e
suona, e da uno degli strumenti stereotipati della musica del secolo scorso
escono suoni inimmaginabili, distorsioni digitali inaudite, ad ogni colpo della
sua mano Squarepusher emette laceranti contrazioni del suono digitale, come un
nuovo Jimi Hendrix marziano, Tom Jenkinson mostra la via della luce e del suono.
La confusa varietà della proposta del MIT nelle sale interne
ha incluso una serie frastagliata di proposte, evito di tornare sulla piattezza del dj set di James Blake o il delirio decadente di Sebastien Tellier segnalando gli ottimi
Mouse on Mars e gli straordinari, ma fuori tema, Thundercat portatori di un
jazzfunk ipertecnico e vitale, ma che di elettronico avevano ben poco.
photo by Mara Nanni 2012
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